di Melina Ciancia

E ritorno al Cereso: dopo dieci anni, mi riporta l’affezione a questa realtà reggina che, nella discrezione e nella efficienza, aiuta decine e decine di giovani  a liberarsi dalla tossico-dipendenza. Il mio ruolo di insegnante mi porta ad incontrare i ragazzi in laboratori culturali nei quali si aprono alla condivisione e diventano così libri su cui si può leggere la delusione, il rimpianto e lo sconforto ma che rappresentano anche dei punti cardini per superare il disagio e scoprire,  come diceva Totò Polimeni “il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà”.

La struttura è in montagna, in un ambiente molto sereno e tranquillo: dalle finestre si può ammirare l’Aspromonte e i ragazzi vivono la loro giornata scandita in varie fasi, iniziando con la filosofia di “Progetto Uomo” che è il programma della FICT, adottato al Cereso, e il cui ideatore, don Mario Picchi, l’ha pensato proprio per ciascun ragazzo che entra in comunità.

I ragazzi hanno degli orari e un programma abbastanza impegnativo durante l’arco della giornata, pertanto, essendo una struttura protetta, l’ingresso di persone che non siano operatori è scandito con puntualità. Ci incontriamo una volta a settimana per circa due ore: il  Cereso rappresenta per me una seconda famiglia. 

Faccio parte del piccolo contingente di docenti che cercano di “fare scuola fuori dalla scuola”: il mio impegno è rivolto anche al recupero di giovani in situazione di marginalità sociale per la riduzione della dispersione scolastica e pertanto recuperare gli abbandoni scolastici è sicuramente una grande sfida che dobbiamo continuare a sostenere anche perchè la funzione docente non si esaurisce nell’istituzione scolastica, ma esercita il suo ruolo formativo anche in ambiti sussidiari alla scuola, per ampliarne la capacità di intervento anche nelle situazioni “a rischio”, per prevenire, contrastare fenomeni di dispersione dovuti anche all’incremento, in ambito giovanile, di dipendenza da sostanze.

Quando sono entrata, dopo anni, per la prima volta in comunità e mi sono vista davanti una decina di giovani (solo alcuni sugli “anta”) mi sono detta che forse dieci anni prima sarebbero potuti essere stati i miei alunni e se ora sono in una comunità di recupero dalla tossicodipendenza, vuol dire che noi, come scuola, come insegnanti, come agenzie educative abbiamo fallito in qualcosa e mi sono sentita responsabile del loro disagio.

Prevenzione: questa la parola chiave del futuro dei nostri giovani ed io che sono un’insegnante con requisiti speciali (siamo meno di cento in tutta Italia ad ottenere questo comando nelle comunità terapeutiche), sono fiera di esserci, di stare e condividere con loro emozioni e progetti, loro che spesso hanno perso tutto senza avere un progetto di vita.

Il seminario di studi su un argomento proposto è lo strumento che raggiunge fino in fondo i giovani, coinvolti in argomentazioni che interessa il loro quotidiano: niente di poetico o puramente letterario; facciamo insieme cultura, oltre al recupero scolastico, per qualche giovane che ha da tempo ormai abbandonato i banchi scolastici e che sente il bisogno di ricominciare a scrivere in lingua italiana.

Credo che l’insegnamento non sia  solo in classe ma è anche  arrivare ai ragazzi che vogliono ricominciare, incontrandoli nei loro percorsi smarriti. E a quel punto ti accorgi che la tua professione diventa una missione  perché aiuti i giovani con un’azione molto soft  per farli includere  in un progetto di crescita e di formazione per restituirli liberi  da ogni dipendenza alla  società che li attende per un futuro migliore, avendo come obiettivo l’Uomo.